Il territorio sanluchese

La vallata del Bonamico

Sulla presenza dell’uomo paleolitico nella vallata del Bonamico si possono fare, allo stato attuale delle conoscenze, soltanto delle supposizioni. Ci sono tracce, invece, che attestano l’attività umana nella fase più sviluppata della preistoria litica, vale a dire prima dell’età dei metalli. Rinvenimenti, anche recenti, d’asce di pietra dura ben levigate, ossidiane e ceramica grezza, in zone collinari e pre-montane tra quota 200 e 700 metri, confermano l’ipotesi sostenuta da alcuni studiosi: già 3000 anni a.C., l’uomo preistorico si aggirava per queste valli.

Con l’arrivo dei coloni greci, intorno al secolo VIII° a.C., la storia delle popolazioni indigene tende a fondersi ed a confondersi con quella della Polis colonizzatrice e dominatrice. Gli abitatori del massiccio aspromontano, non si sottomisero ai greci venuti dal mare. Essi, anzi, si rinserrarono sempre più verso i monti preferendo la vita libera al contatto con la natura, anche se molto selvaggia e dura, piuttosto che la dipendenza dai Locresi. I greci da parte loro non avevano alcun interesse per i territori montani, inadatti all’agricoltura, e quindi evitavano conflitti e tensioni, preferendo mantenere rapporti di buon vicinato o quantomeno non ostili. Per questo, la bianca montagna (aspro, in greco = bianco) pullulava di piccole o piccolissime comunità di pastori, raccoglitori di pece, cacciatori, senza che vi fosse un vero centro religioso o amministrativo.

La conquista del territorio da parte dei romani sconvolse l’antico equilibrio. I nuovi invasori imposero le leggi dell’Urbe e i principi economici basati sullo sfruttamento della schiavitù e del latifondo. Territorio e abitanti divennero proprietà di Roma. Le carestie, le malattie endemiche e le spietate condizioni di vita sociale spinsero gli schiavi a fuggire dai latifondi e a cercare rifugio sui monti, dove formarono nuovi nuclei, che in seguito divennero villaggi.

Uno di questi centri fu Petracucca, di cui non conosciamo l’ubicazione esatta, ma si ritiene si trovasse vicino a Pietra Cappa. Questo insediamento è menzionato nella biografia di Sant’Elia Speleota, che predicò lì nell’anno 900 d.C.. Petracucca fu attaccata e distrutta nel 952 d.C. dai saraceni dell’emiro Al Hassan, come documentato nella Biblioteca Arabo-Sicula di Michele Amari.

Molti abitanti furono ridotti in schiavitù e deportati in Africa, mentre altri scamparono alla strage e si stabilirono ai piedi di Pietra Castello, un massiccio roccioso trasformato dai bizantini in una fortezza imprendibile. Il nuovo villaggio prese il nome di Potamìa e condivise le vicissitudini feudali del territorio.

È probabile che il feudatario bizantino abitante del Castello fosse anche il padrone del vasto territorio montano che si estendeva dal mar Tirreno al mare Jonio. Il Castello aveva leggende e storie che lo circondavano, tra cui la visita di Papa Silvestro e la battaglia tra saraceni e cristiani menzionata nel poema cavalleresco Chanson d’Aspremont.

Pur essendo un piccolo villaggio di pastori, Potamìa fu incluso in una vasta signoria feudale dopo la conquista normanna della Calabria. In età sveva, appartenne al barone Carnelevario de Pavia e successivamente passò ai Ruffo e al marchese di Crotone, Antonio Centelles. Tuttavia, la gran contea era ormai ridotta a una parte, che comprendeva diversi centri, tra cui Potamìa.

In questi territori, esisteva un notevole allevamento di cavalli, noto come Regia Cavalleritia et Razza, di proprietà del Re. Molti dei pascoli per i cavalli reali si trovavano nell’Aspromonte, nella zona di Potamìa, e molti dei cavallari e giumentari erano originari di Potamìa.

Le terre di Bovalino, Potamìa e Panduri furono acquistate, verso al fine del secolo XVI°, da Sigismondo Loffredo, nominato dal re, Marchese di Bovalino. Pochi anni dopo, nel 1590, una tremenda alluvione ed un’imponente frana dilaniarono l’abitato del villaggio di Potamìa, già altre volte provato da terremoti ed altre calamità naturali.

Le poche famiglie, superstiti dei precedenti esodi, dovettero abbandonare ancora una volta la terra dei loro padri. Il 18 ottobre 1592, in processione solenne, partendo dall’antica chiesa mezza diroccata, con in testa il vescovo di Gerace, Mons. Vincenzo Bonardo (1503-1601), il popolo si avviò per raggiungere il sito scelto per l’insediamento del nuovo villaggio; che si chiamò San Luca in onore dell’evangelista del quale quel giorno ricorreva la festa.

Dopo il Loffredo, che morì senza lasciare eredi, San Luca passò dalle mani di diversi feudatari, fino a pervenire ai Gambacorta, duchi d’Ardore. Questa famiglia feudale, come molte altre del ‘600, si distinse per la particolare ferocia, l’arroganza e soprattutto per l’avidità con la quale usurpava all’Università ed al clero di San Luca beni e sostanze. Ai Gambacorta successero i Clemente che acquistarono il feudo nel 1675 per 23.000 ducati. I marchesi Clemente tennero il feudo per 131 anni e furono i soli che abitarono in San Luca, dove costruirono un gran palazzo di cui oggi sono rimasti imponenti vestigia ed il bellissimo portale di pietra intagliata.

Il Settecento, nonostante fu il secolo meno oscuro per questa comunità, va ricordato per il terremoto del 1783 che causò danni all’intera Calabria. Fu anche il secolo in cui vi fiorirono le arti liberali: medici, speziali, notai, avvocati, ecc.

L’Ottocento fu un secolo caratterizzato da lotte tra le varie fazioni di borghesi che, dopo l’eversione della feudalità, si disputarono, arraffando ricchezze anche e soprattutto con l’usurpazione, il potere politico e civile. San Luca, o almeno la sua classe dominante, quando si presentò l’occasione, si schierò con la conservazione borbonica. Ciò avvenne sia durante l’occupazione francese nel 1806, per la qual cosa, le truppe napoleoniche sottoposero la popolazione ad una dura quanto maramaldesca rappresaglia, trucidando sei cittadini inermi tra cui un prete e due donne e ferendone parecchi altri; sia nei moti del 1847 quando il popolo guidato dai maggiorenti, respinse in malo modo i messi dei rivoltosi.

In premio di questo comportamento il re borbonico assegnò, al paese, la giurisdizione di primo grado e il titolo di capoluogo del Circondario. Verso la fine del secolo, il paese cominciò a dare il suo contributo al gran movimento migratorio verso le Americhe.

Il secolo XX° si annunciò alla Calabria con tre disastrosi terremoti in quattro anni che arrecarono danni enormi al piccolo paese seicentesco. Il magnifico palazzo marchesale, passato poi ai signori Stranges, subì danni incalcolabili ed irreversibili. Poi la prima guerra mondiale. Trentasei giovani sanluchesi partirono per il fronte, forse senza sapere bene perché, e non vi fecero più ritorno. Fu un enorme contributo di sangue se rapportato all’esiguo numero d’abitanti dell’epoca: meno di duemila. Una quarantina di morti provocò anche la seconda guerra mondiale. Il dopoguerra portò inizialmente qualche speranza di lavoro con l’installazione di una segheria che, nel periodo di maggior sviluppo, occupò fino a quattrocento operai, ma durò poco. Di nuovo il gorgo dell’emigrazione inghiottì centinaia d’uomini e donne. Negli anni cinquanta una serie d’alluvioni catastrofiche ferì gravemente il territorio, producendo innumerevoli frane, e rivoluzionò l’economia fino allora prevalentemente pastorale. L’ultima alluvione del dicembre 1972 mise in pericolo la parte più antica e bella del paese, quella arroccata, come “un nido di calabroni”, alla collina. Ancora un drammatico esodo di massa.

La chiesa parrocchiale ha avuto varie ristrutturazioni. L’ultima ad opera dall’attuale parroco che, con il concorso generoso del popolo, l’ha resa più bella ed accogliente. All’interno del tempio si conservano, tra le altre opere d’arte, una bell’Annunciazione dell’artista Nik Spatari, dono del defunto Sig. Marando Domenico e della moglie di lui, signora Giorgi Maria; e una Deposizione del pittore sudafricano d’origine sanluchese Antonio Giampaolo. Quest’ultimo quadro riproduce fedelmente l’altro, molto più grande ed antico, trafugato da ignoti negli anni settanta.